La carne è la prima responsabile del cambiamento climatico. Il 43% delle emissioni di anidride carbonica (più di tutti i mezzi circolanti sul pianeta) viene proprio dagli allevamenti.

Il famigerato effetto serra, con il conseguente surriscaldamento globale e il corredo di cataclismi che porta con sé (inondazioni, trombe d’aria ecc), è da attribuire in larga parte alla gran quantità di animali concentrati negli allevamenti. Il metano prodotto durante il processo digestivo delle mucche, costrette ad un’alimentazione ipercalorica perché ingrassino più in fretta, non è meno nocivo di quello contenuto nei gas di scarico di un’automobile. Inoltre le migliaia di tonnellate di deiezioni che ogni giorno fuoriescono dagli allevamenti, difficilissime da smaltire, una volta a contatto con il terreno inquinano irreparabilmente le falde acquifere più in profondità.

Sommando la quantità d’acqua consumata per coltivare i campi destinati alla produzione di mangimi, abbeverare gli animali prigionieri e ripulire le stalle, si ricava un risultato a dir poco agghiacciante: per produrre un kilo di carne occorrono fino a cento mila litri d’acqua. I lodevoli scrupoli degli amanti della natura, che per ridurre lo spreco pongono grande attenzione a non lasciare aperto il rubinetto di casa un secondo più del necessario, impallidiscono davanti al risparmio che otterrebbero diventando vegetariani. È stato calcolato che con l’acqua necessaria per avere cinque kili di carne è possibile soddisfare il fabbisogno di un’intera famiglia per un anno. Astenendosi dai prodotti di origine animale, si risparmia tanta acqua quanta ne sprecheremmo lasciando aperta la doccia ininterrottamente per 365 giorni l’anno.

Anche la desertificazione del suolo e l’allarmante impoverimento del mare sono collegati all’industria della carne. Un terzo delle terre coltivabili sul pianeta sono utilizzate (ed usurate) per l’allevamento di bovini.

Tra il 1990 e il 2000, in Amazzonia principalmente, è stata disboscata un’area grande quanto due volte il Portogallo per fare spazio alle grandi mandrie di bovini. La diminuzione della quantità di pescato, che cala sensibilmente di anno in anno ed è motivo di grande preoccupazione per i governi, rende manifesta l’insostenibilità dei ritmi con cui avviene attualmente il prelievo di pesce dai mari. Negli ultimi trent’anni è andato perduto il 30% della biodiversità sul pianeta.

Inoltre va ricordato che gli animali danno prestazioni alquanto deludenti come macchine da cibo: le proteine necessarie a mantenere in vita una mucca o un maiale sono molte di più di quante vengono convertite di fatto in carne commestibile. Solo una parte di quello che mangiano diventa carne buona per il mercato, il resto serve a farli crescere e sostentarli nel periodo tra la loro nascita e la morte violenta.

Le regioni meno sviluppate al mondo sono quasi sempre esportatrici di soia o sementi verso l’Occidente europeo o nord americano, dove vengono impiegate per saziare gli animali detenuti negli allevamenti intensivi.

Se quegli stessi alimenti rimanessero da dove provengono, il dramma della carestia sarebbe senz’altro alleviato di molto in quei luoghi. Se gli abitanti dei paesi più ricchi rinunciassero a mangiare animali, ma tornassero direttamente alla fonte da cui quegli animali traggono nutrimento (cibi vegetali appunto), avanzerebbe tanto cibo da poter sfamare anche i paesi poveri, dove sono ancora molti a morire di fame. Dove mangia un onnivoro, mangiano infatti dieci e più vegetariani. Ad un kilo di carne corrispondono quindici kili di cereali.

Data poi la crescita demografica in corso e la domanda di carne sempre più forte da parte delle nazioni emergenti, che stanno facendo proprie le peggiori abitudini alimentari tipiche degli Stati Uniti e dell’Unione Europea (ad esempio in Cina il consumo di carne pro capite raddoppia ogni dieci anni), nel 2050 sarà fisicamente impossibile produrre carne a sufficienza per una popolazione mondiale di 9 miliardi, nemmeno mettendo a frutto tutte le terre coltivabili sul pianeta. Comunque sia, anche in questa ipotesi ne uscirebbero completamente destabilizzati i già fragili equilibri del nostro ecosistema.

Toccando infine la questione del risparmio economico che si ottiene passando ad una dieta vegetariana, basti indicare il prezzo bassissimo di frutta e verdura in confronto a quello di carne, pesce e latticini in vendita nei negozi. Se si abbandona il preconcetto errato secondo cui questi ultimi sono più nutrienti dei cibi vegetali, ci si renderà conto agevolmente di come si possa fare spesa per una settimana intera acquistando prodotti freschi con poco denaro. Ma sarebbe molto più grande la differenza di prezzo tra prodotti di origine animale e prodotti di origine vegetale, se non ci fossero le esorbitanti sovvenzioni che gli allevatori ricevono dallo stato. Come potrebbe altrimenti una bistecca avere all’incirca lo stesso valore economico di qualche confezione di mais, quando perché esista quella bistecca un animale ha dovuto mangiare tonnellate intere di mais nell’arco della sua vita? E’ l’intervento dello stato a venire incontro agli allevatori perché rimanga relativamente basso il costo della carne. Le risorse impiegate in questa operazione (il 40% del bilancio UE) vengono immancabilmente sottratte alle tasche dei cittadini tramite la tassazione. Se così non fosse, il prezzo dei prodotti di origine animale sarebbe decuplicato.