Marzo 3, 2016

Il sogno

Addormentata, cullata dal triste belato di un agnello, mi ritrovo in una notte buia pesta, lassù in collina.
 Un suono, prima ovattato poi sempre più stridente, ed una luce improvvisa, mi colgono attonita. È un attimo.
Una sfera gigantesca. Luminosa sopra di noi. Noi? Si, io e i miei due figli Aisha e Jacob.
Ci prendono abbracciati e spaventati e ci portano dentro un globo di luce.
Non sono molto diversi da noi; molto belli, alti, luminosi ma freddi glaciali.
Aisha piange disperata: è piccina, 4 anni. Jacob, 7 anni, vuol fare l’ometto: trema ma non piange. Ed io disperata li abbraccio, ma inutile: ci dividono. Dove li portano? Che faranno? Mi spingono per un lungo corridoio. Dio che disperazione! Che succede?
Ecco, si fermano, mi gettano in una piccola, stretta cella buia, indifferenti ad ogni mio lamento.
Inesorabile il tempo passa lentamente; non so che ore sono, quanto tempo è passato. Fa Freddo, chissà dove sono i miei figli.
Suoni strani. Passi che vanno e vengono, grida, suoni. Che succede. Chi sono? La paura mi prende la gola non riesco né piangere né a urlare. Immobile sento assalirmi il terrore sino al limite poi un urlo. Dio è Aisha! Aiuto, è Aisha! Aiuto!
Sento le grida della piccola. Alle grida, grido a mia volta e cuore si stringe. Che succede? Ecco arrivano, sento dei passi. Sono due. Mi guardano fra il divertito e lo stupito. Mi additano, non capiscono.
Non capiscono! Accidenti! Ma non vedono il mio dolore? Urlo: “Vi prego, chi siete?” ma loro, con espressione stupita, mi guardano e poi, infastiditi, mi mettono una bavaglia e mi legano così che non posso più urlare e agitarmi.
Mi restano solo lacrime cocenti che scendono sulle mie mani legate. Il dolore mi strazia e pietosa mi prende la coscienza, lasciandomi in un limbo di nulla.
Tic, toc, tic, toc: che succede? Gocce d’acqua mi destano, poi lo scroscio: ma è gelata, che fredda! Mi levano il bavaglio e grido, grido con tutto il fiato. Mi assestano un calcio. Che succede? Che succede?
Mi mettono un laccio intono al collo e mi trascinano fuori lungo il corridoio. Cerco di star tranquilla e di capire ma una lancinante paura per Jacon e Aisha mi atterrisce ulteriormente.
Percorro corridoi lunghi e bui ed alla fine entro in una stanza illuminata piena di vetrine. Oh no, non è possibile! Sono tutti bimbi piccoli! Sembra che debbano respirare piano, con gli occhi socchiusi, persi nel vuoto. Tra loro Aisha, oh Aisha, angelo mio!
Che ti hanno fatto? Rinchiusa nella settima vetrina, con il pollice in bocca.
Uno strattone mi trascina via. Non urlo, taccio. Così immenso è il mio dolore; non può far rumore.
Procediamo, io e i due strani alieni; loro parlottano ma non capisco: che succede?
Ecco una stanza ancora più grande, con una vetrata. Ancora bimbi più grandi, svegli, oltre la vetrata e imbavagliati così come pure gli altri. Una decina su tavoli, tre alieni li controllano: che orrore! Li tagliano e prelevano brandelli di carne da analizzare. No, no, no! L’urlo mi esce disumano e ricado in quell’oblio, nel nulla.
La musica soave mi prende e mi riporta alla realtà, oh, no, non mi va questa realtà! Il tappeto è soffice, la luce confortevole e finalmente un po’ di calore. Apro gli occhi e lo vedo: è luminoso pure lui, come gli altri, ma più alto.
Si muove con grazia e mi guarda con curiosità. Non ha un viso crudele. Sembra gentile. Chissà se mi può capire. Parlo, mi muovo, e gesticolo: niente. Mentre mi guarda, anche lui cerca di comunicare: solo suoni, dolci suoni ma non capisco. Poi prende un aggeggio come un telecomando. I suoni cambiano riesco a individuare i suoni: un cinguettio, un ruggito e poi, finalmente, CIAO.
Mi capisce! Ciao, ciao! Sorride e ripete: ciao! Chi sei?
Mi chiamo Nikita, voi chi siete? Che succede?
Racconta la sua storia.
Arrivano da un pianeta lontano. Sono venuti per conoscere il nostro pianeta. Hanno avuto ordine di adeguarsi al nostro sistema per comprendere meglio il nostro modo di vita. Così, arrivati nella nostra orbita, scoprono che la differenza di evoluzione fra loro e noi era tanto quanto la nostra di umani e i nostri animali quindi si sono adeguati, tenendo con noi lo stesso atteggiamento che noi abbiamo con gli animali.
Spiega che per non turbare il nostro sistema, era logico, legarmi, togliermi i figli, cosi come è logico per noi farlo con gli animali della terra. Tentai di fargli capire che era diverso (della sofferenza inflittaci, di questo dolore) ma mi guardava esterrefatto. Non capiva. Anche gli animali soffrivano eppure, nonostante ciò, non esitavamo a usar loro lo stesso trattamento. Anzi, mi confidò che, per amor di conoscenza, aveva trasgredito agli ordini cominciando con me poiché questo non era previsto nel progetto.
Difatti noi, esseri umani, poco ci curiamo di comprendere gli animali: li utilizziamo e basta.
Il ragionamento non faceva una grinza, che sarebbe successo? Mi spiegò che ci avrebbero portati sul loro pianeta e ci avrebbero utilizzati, Aisha, probabilmente, avrebbe trovato posto in un museo rinchiusa in una gabbia e a disposizione del pubblico come in uno zoo qui da noi oppure venduta come un cagnolino o una scimmietta, mentre Jacob, che era robusto e sano, era l’ideale per un laboratorio dove avrebbero potuto fare molti esperimenti fino alle resistenze del suo fisico. Io, in quanto ancora giovane, sarei probabilmente stata costretta ad accoppiarmi con qualche uomo catturato per avere altri essere umani da utilizzare. Era atroce! Ma lui era tranquillo anzi, si meravigliava: era così normale qui, sulla Terra, comportarsi così. Non capiva la mia disperazione.
Un incubo: era un incubo. Non era possibile, invece il dialogo continuava. Mi rassicurava, non ci avrebbero mangiato. La loro etica gli impediva di nutrirsi di altri esseri simili a loro anche se inferiori, quindi potevo stare tranquilla, anzi gli ero simpatica. Aveva deciso di tenermi: potevo sempre essergli utile oppure bastavo per fargli compagnia. Così decise di marchiarmi. Prese un piccolo bastoncino con l’estremità arrotondata che rappresentava un piccolo strano fiore. Gli diede fuoco e quando fu rosso acceso lo puntò con decisione contro la mia caviglia destra, il dolore prese ancora il sopravento e svenni di nuovo.
Aisha piangeva. Mi portò alla realtà: ero a casa. Angelo, mio marito, dormiva ancora. Mi alzai di corsa con il pianto in gola, abbracciai Aisha e, sollevata, vidi Jacob che dormiva tranquillo nel suo letto. Era stato un sogno. Un sogno incredibile. Un sogno, per fortuna.
Aisha, addormentata, si succhia il pollice. E’ grande il sole che sorge, è l’alba di un nuovo giorno. 
Esco all’aria fresca. Apro la stalla e stringo al petto l’agnello: stai tranquillo, amico, sei al sicuro, non ti uccideremo. Vivrai con noi, sarai al sicuro, non ti faremo del male: cercheremo di comprendere te e tutti gli altri animali della fattoria. Oggi è un nuovo giorno: “Fai al tuo prossimo ciò che vorresti fosse fatto a te” io non voglio soffrire, voglio vivere. Così sarà per voi.”
E’ stato solo un sogno, ma che sogno! Accovacciata con l’agnellino in grembo mi riconcilio con il mondo, sfiorandomi la caviglia destra sento una piccola crosticina. Che strano: mi sono fatta male con un rametto forse correndo. Guardo: una piccola cicatrice con uno strano, piccolo fiore. Che sogno.

Carmen Somaschi