Giugno 24, 2023

Collegamento con il passato – Un futuro di manipolazioni genetiche? [1999]

La parola “biotecnologie” in realtà è del tutto innocua. Le biotecnologie sono tecnologie che esistono da quando esiste la civiltà umana, da quando l’uomo ha cominciato a usare in modo razionale ciò che aveva attorno a sé. Altra cosa sono invece le “biotecnologie innovative”.

La parola “biotecnologie”, che ormai evoca mostri, in realtà è del tutto innocua: le biotecnologie sono tecnologie che utilizzano processi biologici, esistono quindi da quando esiste la civiltà umana, da quando l’uomo ha cominciato a usare in modo razionale ciò che aveva attorno a sé: è biotecnologia la produzione del vino, della birra, del pane, dello yogurt, perché per fare queste cose si utilizzano microrganismi. Oggi però, quando si parla di “rivoluzione biotecnologica” ci si riferisce alle cosiddette biotecnologie innovative, alle tecniche capaci di modificare l’informazione genetica degli organismi viventi. Queste tecniche sono l’ingegneria genetica, ossia la manipolazione dell’informazione genetica delle cellule e degli organismi (che comprende anche le terapie geniche, ossia la capacità di intervenire su alcune patologie agendo direttamente sui geni) e la clonazione, la riproduzione, cioè, di copie identiche dal punto di vista genetico di animali dallo sviluppo embrionale complesso che normalmente in natura non sono in grado di riprodursi in questo modo.
Grazie alle tecniche di manipolazione è oggi possibile inserire, modificandoli se necessario, geni provenienti da una certa specie nell’informazione genetica di un’altra specie completamente diversa: geni animali in batteri o piante, geni umani negli animali, e così via, producendo piante e animali “transgenici”. Questi nuovi organismi, non presenti in natura, frutto di un’azione dell’uomo sul loro DNA (acido desossiribonucleico, la molecola che contiene i geni), sono anche detti “organismi geneticamente modificati” o semplicemente OGM. Nel trasferimento di geni da un organismo vivente a un altro non ci sono limiti, c’è però un grosso problema: l’ingegneria genetica non è in grado di operare con precisione. Il DNA iniettato si integra nel genoma del nuovo organismo senza la possibilità di prevedere tutte le interazioni con altri geni e con la fisiologia dell’organismo.
Da sempre l’uomo ha operato una selezione artificiale in agricoltura e in zootecnia accoppiando animali o piante della stessa specie, e selezionando tra i discendenti quelli che avevano i caratteri che più interessavano. Tutto ciò, rispetto alla natura, era già una forzatura e le conseguenze negative sono sempre state considerate un mero inconveniente cui ovviare intervenendo dall’esterno: ricorrendo ad antiparassitari o a diserbanti, per esempio, se la pianta diveniva più debole rispetto a certi parassiti o a certe erbe, o arricchendo il terreno con sostanze esterne se la pianta selezionata aveva meno capacità di prendere dal terreno il nutrimento. Dietro a questi comportamenti c’era una convenzione: era possibile anche alterare tutto l’ambiente circostante pur di mantenere la possibilità di sopravvivenza alla pianta o all’animale ritenuti più utili all’uomo.

Oggi però siamo andati ben oltre

Non si tratta più di selezionare tra tutte le varianti possibili quella che più interessa, ma di “inventare” queste varianti possibili: si può inserire, in una pianta, il carattere di un batterio che dà la resistenza a un fungo, a un insetto per evitare di usare l’insetticida. E ovviamente si può fare anche il contrario: a partire da un dato diserbante rendere la pianta resistente a quel diserbante, in modo da poterne usare grandi quantità senza intaccare la pianta. E questi sono proprio i casi della soia e del mais modificati geneticamente che hanno invaso l’Europa.

Il discorso si fa ancora più complesso quando si parla di modifiche all’informazione genetica degli animali. In questo caso la logica è ancora più aberrante perché si fa diventare l’animale una macchina per produrre carne e latte in quantità sempre maggiori e con caratteristiche diverse a seconda delle esigenze del mercato, o addirittura si vuole che l’animale assieme al latte produca anche farmaci, ad esempio proteine o altri prodotti rari come l’ormone della crescita o l’insulina.

L’animale non sarà più soltanto un mezzo di produzione, ma un reattore chimico, un macchinario che potrà essere programmato per produrre una cosa o un’altra. E non è tutto: nel futuro degli animali modificati geneticamente c’è anche il loro utilizzo come banca di organi umanizzati per i trapianti. In questo settore alcune industrie farmacologiche stanno investendo moltissimo, ritenendo la fabbrica di organi di ricambio per xenotrapianti (i trapianti da una specie a un’altra, possibili “umanizzando” organi animali con geni umani) una delle prospettive economiche di maggiore interesse per il futuro.

Quali sono i rischi delle biotecnologie 

I vegetali geneticamente modificati autorizzati nell’Unione Europea sono cinque: mais, soia, colza, radicchio, e tabacco. Sono stati modificati per ottenerne la resistenza ai parassiti o la tolleranza agli erbicidi. Tra questi, due riguardano direttamente il settore alimentare: mais e soia, che, direttamente o coi loro derivati come additivi, olii di semi (sia di mais che di soia), amido di mais, lecitina di soia, finiscono poi nei prodotti più svariati. E ogni anno l’Italia importa dagli Stati Uniti un milione e duecentomila quintali di soia, poco meno della metà della quale è di origine transgenica.

In Europa la produzione di vegetali geneticamente modificati è consentita dal 1993, ma solo a titolo sperimentale e senza l’autorizzazione all’immissione in commercio. Mais e soia geneticamente modificati in Italia sono solo importati, con una situazione, a prescindere da ogni altra considerazione, di concorrenza iniqua per i nostri agricoltori.
Se non si interverrà in tempo con una adeguata legislazione, i vegetali geneticamente modificati in commercio potrebbero diventare molti di più: le multinazionali delle biotecnologie hanno infatti già inoltrato agli organi competenti le richieste di autorizzazione per la commercializzazione di moltissime altre piante geneticamente modificate (pomodoro, patata, anguria, broccolo, carota, cavolo, cotone, melanzana, melone, peperone, riso, uva, barbabietola da zucchero, zucca, papaya…). Se si dimostrerà che il nuovo organismo modificato è equivalente a quelli esistenti dal punto di vista nutrizionale e di uso, quest’autorizzazione rischia di essere praticamente automatica. Così prevede la Direttiva Europea n. 220 del 1990 che venne elaborata quando ancora non si teneva conto del “principio di precauzione” secondo il quale prima di sviluppare una tecnologia in un sistema produttivo bisogna saper prevedere i rischi che comporta e avere strumenti di prevenzione del danno potenziale. Questa direttiva è attualmente in corso di revisione al Parlamento Europeo, e questa è solo una delle tante battaglie in tema di biotecnologie combattute in questi anni dai Verdi a difesa dei consumatori.

L’immissione sul mercato, senza adeguato controllo preventivo di organismi geneticamente modificati e la richiesta di brevettare tali organismi o tali tecniche, hanno creato una crescente preoccupazione nell’opinione pubblica per le conseguenze ambientali e sanitarie che potrebbero derivare da un’incontrollata diffusione di OGM, e per gli interrogativi di natura etica che tali manipolazioni suscitano.

La cosa più preoccupante è che se da una parte sono ben chiari gli interessi economici che spingono le multinazionali a investire in questo settore nella speranza di forti guadagni futuri, non è per nulla chiaro se il bilancio costi benefici vada a favore della collettività.

Le negative esperienze già fatte con le industrie chimiche e con il nucleare non possono che suscitare forti sospetti per tecniche che potrebbero essere ancora più sconvolgenti sugli equilibri ambientali e sulla nostra salute.

Una pianta contenente un gene modificato non è certo come un veleno che provoca un effetto immediato. Le conseguenze per le future generazioni di piante, animali e uomini, di un “inquinamento” genetico potrebbero essere catastrofiche, ma potremmo misurarle solo in tempi molto lunghi.

Il primo, e più grave, dei problemi delle biotecnologie risiede proprio in questa complessità, che rende molto difficile, se non impossibile, prevedere le innumerevoli variabili degli effetti delle modificazioni. In termini valutazione di impatto ambientale, introducendo nell’ambiente individui con caratteri genetici che non esistevano prima, non sapremo mai prevedere in anticipo quali conseguenze potranno verificarsi.

In ogni momento è possibile che una pianta modificata si incroci per caso con piante coltivate o spontanee dello stesso tipo e diffonda un carattere che potrebbe avere conseguenze catastrofiche: una resistenza a un particolare parassita, per esempio, potrà far sì che questa pianta si trovi senza più controllo e diventi infestante. I parassiti negli equilibri sono indispensabili quanto le piante utili, è solo la prospettiva antropocentrica che divide le piante in utili e dannose; nella logica dell’equilibrio, invece, eliminare l nemico di una pianta utile può significare trasformare altre piante simili in dannosissime piante infestanti. Generazione dopo generazione si potrebbe modificare la struttura stessa degli ambienti naturali. O ancora: introducendo il gene per la resistenza a degli insetti, questa resistenza non si diffonderà nella pianta in modo omogeneo da quando la pianta germoglia a quando muore e non si distribuirà uniformemente in tutte le parti della pianta. Di conseguenza un attacco precoce da parte degli insetti potrebbe distruggere tutto il raccolto come già successo con le piante di cotone. Oppure insetti che vivono in zone dove la concentrazione della tossina è minore potrebbero non morire ma selezionare i più resistenti fra loro, e diventare nel corso dell’evoluzione, addirittura indenni alle conseguenze di quella tossina: in questo caso non solo si sarebbe introdotto qualcosa di inutile, ma siccome la tossina del bacillo thuringensis introdotta nei campi utilizzando direttamente il microorganismo che la produce, serve come forma di difesa per le colture biologiche, introducendola in questo modo artificiale, non biologico, c’è rischio di rendere resistenti gli insetti anche alla tossina che viene usata in agricoltura biologica pregiudicando così una forma di agricoltura corretta. Altro aspetto è quello della riduzione enorme della biodiversità, della variabile genetica delle piante e degli animali. Se alcune piante geneticamente modificate diventeranno particolarmente convenienti dal punto di vista economico (soprattutto ovviamente per le multinazionali che controllano il mercato), si assisterà a una progressiva riduzione delle varietà di piante e, in futuro, anche di animali. Le conseguenze di queste scelte si potranno misurare già nel breve periodo con la perdita della ricchezza di sapori diversi nell’alimentazione quotidiana (perché la grande industria imporrà per ogni specie, una sola varietà frutto della sperimentazione biotecnologica) fino alle estreme conseguenze che potrebbero derivare per il nostro pianeta dalla perdita della biodiversità.

Oltre a questo, le biotecnologie nascondono conseguenze sanitarie anche per l’uomo: ogni volta che si modifica un prodotto alimentare, questo può provocare allergie (come è accaduto nel caso della soia nel quale è stato inserito un gene proveniente dalla noce del Brasile), intossicazioni, che magari non vediamo immediatamente, ma che possono produrre effetti a distanza di tempo. Inoltre, sappiamo che spesso per identificare i geni introdotti negli organismi geneticamente modificati e renderli riconoscibili, si inserisce come marcatore un fattore di resistenza agli antibiotici; questo marcatore però, una volta arrivato nell’apparato digerente attraverso un alimento che lo contiene, potrebbe trasferire tale resistenza ai batteri che normalmente convivono con l’uomo e questi a loro volta potrebbero trasferire questa resistenza a batteri patogeni; a quel punto quel fattore di resistenza renderebbe nullo l’utilizzo dell’antibiotico specifico privandoci di una delle potenziali armi di difesa più importanti contro le malattie infettive.

Per quanto riguarda i benefici che deriverebbero da un utilizzo massiccio di vegetali modificati geneticamente, diversi rappresentanti dell’industria biotecnologica sostengono che gli OGM, pur rappresentando dei rischi, rappresentano una soluzione eccellente a problemi talmente gravi, come quello della fame nel mondo che i vantaggi superano di gran lunga i rischi. Questa, tuttavia, è un’argomentazione ridicola visto che già oggi il cibo prodotto sarebbe sufficiente per tutta la popolazione, se solo fosse distribuito diversamente. Se il Sud del mondo continua a morire di fame, la causa sta negli sprechi e gli eccessivi consumi del Nord. E non è tutto: anche per i paesi industrializzati, ciò che si profila è solo un cibo peggiore. Molti brevetti biotecnologici delle industrie alimentari riguardano infatti la conservazione dei cibi e, di conseguenza, la loro facilità di trasporto e di lavorazione; ad esempio, ritardando la maturazione o la marcescenza di frutta e verdura si riuscirà a trasportarla più facilmente o a tenerla sugli scaffali dei supermercati per periodi più lunghi. Un esempio è il pomodoro non marcescibile, prodotto dalla Calgene. Questo pomodoro è stato manipolato geneticamente in modo che le parte delle sue cellule si decompongano più lentamente; tuttavia, gli altri processi di invecchiamento cellulare, come la decomposizione delle vitamine A e c e delle altre sostanze nutritive, procedono alla velocità normale. Il risultato è un pomodoro che mantiene a lungo un aspetto fresco sugli scaffali dei supermercati ma il cui valore nutritivo è molto ridotto e che oltrettutto contiene come marcatori delle manipolazioni geni che causano resistenza agli antibiotici. È evidente che queste caratteristiche non fanno nulla per combattere la fame nel mondo ma assicurano soltanto o una maggiore produttività all’agricoltura intensiva e industrializzata o maggiori profitti a chi li vende.

Un’etichetta per sapere che cosa mangiamo

Dal primo settembre ’98 tutti i prodotti contenenti derivati da organismi modificati geneticamente dovrebbero poter essere riconosciuti dal consumatore attraverso la dicitura posta sull’etichetta “prodotto contenente OGM”. In realtà di questa etichetta non c’è traccia in nessun prodotto di nessun supermercato italiano. Eppure, anche senza demonizzare gli OGM e i loro derivati, uno dei principi basilari della democrazia è l’informazione, il diritto di scegliere consapevolmente che cosa fare, e in questo caso che cosa mangiare.
All’inizio si è giustificata la mancanza dell’etichetta nei prodotti sugli scaffali dei supermercati dicendo che questi facevano ancora parte di scorte a esaurimento. Visto però che questi prodotti sono deperibili, ormai queste scorte dovrebbero essere esaurite, eppure l’etichetta non si vede. 
E non si vede perché il Regolamento Europeo che prevede l’etichettatura per i cosiddetti “cibi innovativi” (novel food) nasconde un inghippo: quando il prodotto derivato da un OGM è “sostanzialmente equivalente” a quello naturale, cioè non contiene né l’informazione genetica, né il prodotto dell’informazione genetica (ossia la proteina modificata) viene considerato identico a quello naturale. Questo vuol dire per esempio, che la lecitina di soia, l’olio di semi di soia, l’amido di mais, per citare i più diffusi prodotti derivati da mais e soia, anche se provengono da soia o mais modificati, non hanno bisogno di etichettatura perché sono “sostanzialmente equivalenti” a quelli naturali. 
Anche nel caso della presenza di derivati che contengono l’informazione genetica modificata è difficile fare i controlli e quindi le industrie produttrici hanno vita facile nell’evitare la dovuta etichettatura. L’industria alimentare che acquista soia o mais per utilizzarla nella produzione di prodotti alimentari non ha interesse a sapere se è stata geneticamente modificata, visto che in questo modo può declinare ogni responsabilità, tanto più che la soia manipolata importata dagli USA arriva mescolata con quella modificata.

È dunque evidente che per poter avere l’etichetta che dovrebbe segnalare la presenza di OGM o di loro derivati dovrebbe essere previsto un controllo di filiera, si dovrebbe poter certificare il processo “dai campi alla tavola” grazie al quale è stato ottenuto il prodotto . Si tratta di passare dall’etichettatura attuale, che esplicita esclusivamente il contenuto del prodotto, a un’etichettatura di processo, analoga a quella che esiste per i prodotti biologici, che non dice solo cosa c’è in quel prodotto, ma indica come i componenti sono stati coltivati e trasformati. Con un’etichettatura di processo i prodotti dovrebbero portare scritto se fin dall’origine derivano da semi modificati o non modificati e quando l’industria compra la pianta, il seme o una parte della piana per usi alimentari, dovrebbe sapere che pianta ha comprato e avere a sua volta l’obbligo di scriverlo in etichetta del prodotto finito. Solo così il consumatore potrà essere informato del fatto che siano stati utilizzati derivati da piante modificate o non modificate. 
Se è vero che la lecitina di soia non è diversa da quella non modificata è comunque giusto che il consumatore abbia il diritto di scegliere anche perché, indipendentemente dai rischi per la salute, potrebbe essere preoccupato per i danni all’ambiente prodotti dalle manipolazioni genetiche e per le conseguenze etiche. 
E il problema è anche più ampio: allo stato attuale infatti non è l’uomo a mangiare la gran parte della soia e del mais modificati, bensì gli animali e noi non sappiamo cosa stia succedendo nella catena alimentare. Ovviamente non c’è etichetta nella carne, nelle uova o nel formaggio che indichi cos’hanno mangiato gli animali.

L’etichettatura di processo, divenuta attuale a livello europeo dopo “mucca pazza”, è l’unico modo per informare il cittadino sulla provenienza e la qualità di ciò che mangia. Pensiamo solo che oggi per definire una carne come “carne italiana” basta che sia stata macellata in Italia, lo stesso per l’olio che, secondo la normativa europea, deve solo essere lavorato in Italia per essere definito italiano sull’etichetta.
Questo è chiaramente assurdo e vanifica ogni garanzia.

 

Note: Relazione dal convegno di AVI OGM una chiara etichetta per la libertà di scelta del consumatore Bologna, fiera Sana, settembre 1999

Fonte: L’idea Vegetariana n. 120
10 dicembre 1999 – Gianni Tamino (Docente di Biologia all’Università di Padova)